In una lettera del 1952 a Charles C. Burlingham, noto avvocato newyorkese, Gaetano Salvemini scrisse: «Conobbi Maritza e Roberto [Bolaffio] nel 1929 alla New School for Social Research. Vennero a salutarmi dopo una lezione. […] Dapprima li guardai con un certo sospetto. Le spie mi seguivano come le mosche il miele ed io dovevo esser cauto prima di fidarmi di persone nuove. Ma Maritza era così adorabile e Roberto così evidentemente onesto che subito diventammo amici. Lei non può immaginare, caro signor Burlingham, come quei due figlioli furono buoni con me durante gli ultimi venti e più anni. Se fossi stato il loro padre non avrebbero potuto volermi più bene. Per me l’America è soprattutto Maritza e Roberto. E sono così contento che lei apprezzi la loro bontà oltre alla loro intelligenza».
L’archivio di Roberto Bolaffio conservato presso l’ISRT, non ancora ordinato e inventariato ma finalmente descritto nel dettaglio, restituisce pienamente il legame affettivo ed intellettuale instauratosi tra Salvemini e questa coppia di emigrati antifascisti della prima ora.
Sia Roberto che la moglie Maritza Cigoi erano nati a Gorizia nel 1893 ed erano cresciuti nella Mitteleuropa dell’impero asburgico al tramonto; entrambi poliglotti, il primo si era laureato in ingegneria a Graz, la seconda era stata educata al Collegium Theresianum di Vienna. Nel 1923, pochi anni dopo l’unione ufficiale della provincia di Gorizia al Regno d’Italia, si erano trasferiti a New York; secondo Salvemini si erano trovati in una situazione economica molto difficile a causa delle idee liberali di Roberto. Dal 1929, anno in cui ottenne la cittadinanza statunitense, egli fu sorvegliato dalla polizia italiana in quanto antifascista.
Inizialmente negli Stati Uniti Roberto e Maritza dovettero svolgere lavori duri e sottopagati per sopravvivere, attraversando non senza difficoltà la Grande depressione; Roberto riuscì infine a trovare impiego come ingegnere presso una ditta di New York e Maritza si dette da fare come interprete.
Mentre gli oppositori al regime di Mussolini venivano screditati e l’immagine di un’Italia prospera e unita sotto il Duce veniva propagandata tra gli immigrati italo-americani da movimenti, testate giornalistiche e personalità assai discutibili (come l’imprenditore Generoso Pope), Roberto Bolaffio si impegnò instancabilmente per sostenere la causa antifascista negli Stati Uniti. Aderì al movimento di Giustizia e Libertà fin dai primi anni Trenta e per GL fu rappresentante della Federazione Gruppi Esteri per il Nord America; tra il 1939 e il 1943 fu membro di organismi costituiti per orientare l’opinione pubblica americana e raccogliere fondi per esuli antifascisti ed ebrei, come la Mazzini Society e l’Italian Emergency Rescue Commitee.
Tuttavia il nome di Bolaffio è associato per lo più a quello di Salvemini: come dimostra la lettera citata in apertura, fu legato a quest’ultimo da un rapporto quasi trentennale, durante il quale lo aiutò a promuovere iniziative, a pubblicare scritti, a diffondere idee; dopo la morte di Salvemini, avvenuta nel 1957, ne divulgò il pensiero e ne coltivò la memoria. È un peccato che il progetto di scrivere un volume sullo storico pugliese in America, per cui raccolse un copioso materiale, non sia andato in porto.
Ed è un peccato che la sua natura schiva abbia contribuito a mantenere il suo nome sconosciuto ai più e a lasciarne poche tracce anche negli studi specialistici. Tra la cerchia degli amici fu comunque ricordato con stima e affetto, come emerge dalle poche pagine pubblicate ne «Il Ponte» dopo la sua morte, nel 1977, da Carlo Francovich e Giorgio Spini, che ne sottolinearono la «tenace fermezza di convinzioni» e l’«abnegazione esemplare nella lotta antifascista all’estero».
Oltre a rappresentare un’interessante testimonianza del contesto politico e culturale dell’emigrazione italiana negli Stati Uniti tra gli anni Venti ed il secondo dopoguerra, il ricco archivio conservato presso l’ISRT – contenente una nutrita corrispondenza con Salvemini, con altri esuli, con simpatizzanti statunitensi e con personalità del panorama politico e culturale italiano del dopoguerra, nonché scritti di e su Salvemini, materiali preparatori, stampa italo-americana e fotografie – potrà rendere giustizia a questo generoso ingegnere antifascista, che decise di rientrare in Italia con la moglie a metà degli anni Sessanta e di trascorrere gli ultimi anni della propria vita a Firenze.
Marta Bonsanti